venerdì 21 giugno 2013

"Il problema? Non è il non-voto ma che tutto è finito"


La parola d’ordine è sempre la stessa: crisi. Riguarda l’economia e, da qualche anno, anche la politica. L’alto astensionismo delle ultime elezioni è un segnale inequivocabile. Il sentimento di impotenza delle istituzioni e dei partiti appare chiaro. Secondo Marco Tarchi, politologo, ordinario di Scienza politica all'Università di Firenze, il momento è quello della fine di un’epoca. Ma particolare: «perché non si vive nell’attesa della catastrofe, ma nell’indifferenza».

Aumenta il disinteresse per la politica in gran parte dell’Europa. Si tratta di un fenomeno comune o di una particolarità italiana? Che osservazioni si possono fare?

I dati delle inchieste demoscopiche ci dicono che la disaffezione nei confronti della politica è in crescita un po’ ovunque, anche se l’Italia è uno dei paesi in cui tocca le cifre più elevate. Certo, ci sono alcune premesse da fare.

Quali?

Ad esempio che, se si va al di là della retorica sulle virtù della società civile, ci si accorge che da almeno mezzo secolo l’interesse per le vicende politiche ha toccato sempre una quota minoritaria della popolazione – i più si limitano a informarsi superficialmente e distrattamente attraverso i telegiornali. Ma è l’effettiva importanza della politica, oggi, ad apparire in piena crisi.

Perché?

Ogni giorno, di fatto, ci viene ripetuto che quel che conta è l’economia, soprattutto nella sua componente finanziaria. La nostra vita appare condizionata dai mercati, o meglio dagli speculatori che lì operano, e tutt’al più dai livelli di produzione e di occupazione, dal Pil, dai giudizi delle agenzie di valutazione, dai differenziali fra i titoli del debito pubblico e via dicendo. I politici appaiono impotenti di fronte a questi fattori e preoccupati esclusivamente di mantenere i propri privilegi: pure e semplici marionette incapaci di arginare la crisi economico-sociale o perlomeno di rallentarne il corso. Se a tutto ciò si aggiungono gli scandali che il ceto dei politici di professione proietta a ciclo continuo sullo scenario massmediale, con sprechi, ruberie e clientelismo, non si fatica a rendersi conto che la politica è screditata.

Non è conseguenza del decentramento politico a Bruxelles?

No. E lo spiego con una domanda: chi è in grado di capire quali vincoli le decisioni dell’Unione europea pone all’azione dei governi, e se essi agiscono in senso virtuoso o vizioso? Una ristretta élite di addetti ai lavori, che di solito si accapiglia in qualche talk show appena l’argomento entra in gioco. Non credo quindi che questo elemento incida davvero sull’opinione pubblica.

Tornando alla supremazia dell’economia sulla poltica: quanto può avere influito nella percezione di una sostanziale inutilità del voto?

Molto, è chiaro. Ma non è l’unica causa. Anche se è evidente che c’è ancora chi presta loro orecchio, i politici durante le campagne elettorali fanno a gara nell’accumulare promesse che poi, regolarmente, non mantengono. Di conseguenza, cresce il numero di coloro che considerano il voto inutile e prevale l’opinione che, in fondo, candidati e partiti siano “tutti uguali”. Anche perché, quando alcuni di loro vanno al governo e sostengono di voler attuare il programma con cui si erano presentati, è ai vincoli di bilancio, al debito pubblico, allo spread, alla crisi economica globale che danno la colpa dell’obiettivo mancato. E sono sempre meno anche quelli che pensano che ai difetti della democrazia rappresentativa si potrebbe ovviare con la mobilitazione dal basso. Per qualche giorno o settimana compaiono movimenti di protesta – animati quasi solo da studenti – che scendono in piazza e chiamano a raccolta il “popolo”, indignandosi. Ma il popolo tace e le ondate defluiscono.

Anche l'alternativa di Beppe Grillo sembra sgonfiarsi. Per molti è una delusione, per altri il suo calo è un risultato prevedibile e fisiologico.

Il problema del M5S è dato dal fatto che ad attrarre un elettorato così ampio e variegato è stato esclusivamente il discorso pubblico di Beppe Grillo: un discorso forte, urlato, pieno di rabbia e di buonsenso populista. Gli eletti del movimento, invece di farsene megafoni ed imitarlo, si sono collocati su una diversa lunghezza d’onda dividendosi su temi tipicamente “politicisti” – se accettare un governo Bersani, chi votare per il Quirinale (con la proposta di un esponente della “casta” come Rodotà) ecc. –, proprio quelli che l’elettore medio grillino detesta. Scarsamente socializzati alla linea del leader e convinti, a torto, di essere stati premiati da un pubblico davvero interessato ai temi discussi nei Meetup o nei comitati. Questi esponenti istituzionali danno l’idea di un’armata Brancaleone incompetente e rissosa. Se continuano così, finiranno nel nulla, soprattutto gli scissionisti. La loro unica salvezza sarebbe restituire a Grillo il ruolo che gli compete: quello di unica calamita di consensi, con il suo repertorio populista di protesta.

Il Pd, invece, resiste grazie a uno zoccolo duro di fedeli, mentre il Pdl è ai minimi termini storici. Come potrebbe affrontare il futuro post-Berlusconi?

Questo è davvero un quesito per ora insolubile, credo anche per lo stesso Pdl. Non credo che il vagheggiato ritorno a Forza Italia possa cambiare lo stato di cose. In politica, peraltro, i vuoti sono destinati a riempirsi e, nello sgretolamento totale dell’area della destra post-neofascista, il centrodestra dovrà trovare nuove forme di espressione. L’assenza di elaborazione culturale per un ventennio e la rinuncia a coltivare una classe dirigente all’altezza rendono impossibile capire come ciò potrà avvenire nel breve periodo.

Insomma, a destra e a sinistra si ha la sensazione di un declino costante. Sembra si affondi sempre di più e più ci si muove e meno si fa. È la fine di un'epoca?

Penso di sì, ma di solito in circostanze simili si intravvede una via d’uscita, si vive in un clima d’attesa della catastrofe e di ciò che le seguirà. In questo caso, per riprendere la Sua metafora, sembra invece di assistere ad un inghiottimento nelle sabbie mobili dell’indifferenza, sia pur condita di disprezzo per tutto ciò che sta accadendo nella sfera pubblica.

Ma perché?

Buona parte della responsabilità di questo stato narcotico è nell’intensa opera di convinzione operata a partire dagli anni Novanta da intellettuali, politici e media per convincerci che quello in cui viviamo è comunque il migliore dei mondi possibili, che la Storia è finita, che il sistema politico ed economico che ci circonda non potrà mai essere sostituito e che ci dobbiamo accontentare di farlo guidare, in alternanza, oggi da una destra liberale, domani da una sinistra più o meno altrettanto liberale. Le minacce del salto nel buio, l’enfatizzazione delle minacce terroristiche sottese a uno scontro di civiltà, e soprattutto la retorica dell’inevitabilità della globalizzazione e dei suoi esiti, nella vulgata con cui sono state alimentate le opinioni pubbliche, hanno prodotto la paralisi di ogni autentica volontà di reazione.

Ma non ci sono movimenti alternativi?

No: i periodici sussulti giovanili, in stile indignados o Occupy Wall Street, non devono ingannare. Certo, prima o poi questa camicia di forza cederà, ma al momento non so prevedere né quando né come. 

(fonte: www.linkiesta.it)

martedì 11 giugno 2013

La grande fuga dalla politica


La più massiccia astensione elettorale della storia repubblicana registrata nella tornata di ballottaggio ha certificato, al di là di qualsiasi giustificazione che si potrebbe addurre (a cominciare dal "fisiologico calo" al secondo turno che pure abbiamo sentito evocare), la più grave manifestazione di sfiducia nel sistema politico in genere e in chi lo incarna in particolare. Sfiducia immaginabile naturalmente, ma non nelle proporzioni evidenziate da percentuali alle quali non eravamo abituati. Ed essa risulta tanto più grave perché espressa in occasione delle elezioni amministrative: rivela, infatti, soprattutto una "condanna" senza appello da parte dei cittadini di amministratori, uscenti ed entranti, non ritenuti evidentemente all'altezza del compito. 

Se perfino il municipio, luogo di rappresentanza comunitaria per eccellenza, non attrae come un tempo, vuol dire che la disaffezione, l'indifferenza, la delusione hanno fatto breccia nel corpo elettorale non più incline a firmare cambiali in bianco a chi dovrebbe amministrare la loro quotidianità. Il che è tanto più sconcertante se si considera lo stato di degrado di innumerevoli centri urbani la cui gestione viene ritenuta inadatta posto che i lacci e i lacciuoli delle dipendenze economiche dai vari patti di stabilità europei e nazionali impediscono ai Comuni il dispiegamento di provvedimenti adeguati a governare le città. Di questo dato poco si tiene conto, eppure sembra che sia essenziale per quanti si sono tenuti lontani dalle urne consapevoli, magari sbagliando, che chiunque vinca poco o nulla può fare per mutare l'esistente. 

Il dato politico, comunque, è prevalente nel guardare all'astensionismo come a un fattore di decrescita dell'interesse politico. Due settimane fa, davanti a cifre già clamorose, credevamo che si fosse toccato il livello più basso. Ci illudevamo. Quando vota soltanto meno della metà degli aventi diritto (il 48%), è inevitabile concludere che le responsabilità sono tutte del sistema dei partiti nel quale soltanto una minoranza lo riconosce come veicolo per la formazione del consenso. A Roma è andata peggio rispetto alla media nazionale: ha votato il 44% e Ignazio Marino, nuovo sindaco, governerà per volontà di una minoranza di cittadini dovendosi porre problemi di legittimità drammatici, non nel senso del diritto ad esercitare le sue funzioni, ma come rappresentante della Capitale la cui maggioranza numerica, non elettorale (la differenza non è da poco), non lo riconosce. Così come soltanto una minoranza dell'elettorato del centrodestra ha ritenuto di dare fiducia ad Alemanno la cui "caduta" apre una riflessione che non sappiamo dove porterà nel suo schieramento e in particolare in merito alla scomparsa a Roma della destra, come più o meno ovunque in Italia - scomparsa prevista, paventata e analizzata della quale non si è voluto valutare l'impatto da parte di esponenti storici della stessa destra allocati nel Pdl - che testimonia la fine dell'illusione che la "fusione a freddo" tra Alleanza nazionale e Forza Italia avrebbe dischiuso chissà quali vantaggi politici. E invece…

Il rifiuto della politica testimonia che la notte della Repubblica è profonda. Se la classe politica è consapevole di quanto sta avvenendo nel Paese, riformi il sistema, ma senza prendere in giro gli italiani. Non c'è bisogno di Comitati, Commissioni, Saggi. C'è un Parlamento (per quanto di discutibile qualità, vista la sua fonte di nomina e il non eccelso valore di tutti i suoi componenti) che potrebbe lavorare se il contesto fosse diverso. Come si fanno a conciliare le posizioni del Pdl e del Pd, tralasciando gli altri soggetti minori, sulla legge elettorale, la forma di governo e di Stato, la politica economica e sociale, la ridefinizione dei rapporti tra i poteri costituzionali? E ancora. C'è qualcuno disposto a dire con chiarezza che l'Italia sta sprofondando nel baratro dell'immoralità pubblica e privata, dell'irrilevanza culturale, della indifferenza civile? 

Sbaglierebbe chi per miopia o perché ferito nell'orgoglio, si scagliasse contro coloro che hanno deciso di non votare neppure questa volta. Le forze politiche prendano atto, piuttosto, che il sistema è fallito, mentre ombre inquietanti si allungano sulle prospettive di metterne in piedi un altro. Non c'è un clima "costituente" che consenta di essere ottimisti. E questo gli elettori lo hanno percepito testimoniandolo tenendosi lontani dalle urne. È probabile che la notte della Repubblica sia ancora lunga. Speriamo che nel frattempo non affondi anche la democrazia, sempre più fragile, sempre più sotto attacco. 

(di Gennaro Malgieri)

sabato 8 giugno 2013

Massimo Fini: «Siria, come sempre non è una guerra nostra»


A Massimo Fini, giornalista e scrittore “contro”, le ingerenze occidentali in guerre lontane non sono mai piaciute. E, rispondendo alle domande di IntelligoNews, dice chiaro e tondo che non gli piace neanche l’andazzo che sta prendendo la guerra civile siriana, con gli opposti schieramenti foraggiati da forze straniere, che di fatto rischiano di allungare all’infinito un conflitto che sarebbe già finito da tempo.
La soluzione? “In Siria c’è un dittatore, appoggiato da una parte della popolazione, e un’opposizione. Bisognerebbe lasciare che il campo di battaglia dia il suo verdetto. Il più forte vincerà”. Ma forse è troppo tardi…

La situazione siriana somiglia sempre più a quella libica. Vede anche lei qualche analogia?

«Ce ne sono molte. Ma Gheddafi non aveva gli appoggi internazionali che ha Assad. Tutto l’Occidente era schierato contro di lui. In Siria la situazione è diversa perché il regime è difeso dalla Russia e soprattutto da Iran ed Hezbollah».

Anche in Siria, come in Libia, è sempre più evidente il ruolo della Francia, che è molto più interventista degli Usa. A che gioco sta giocando Parigi?

«Credo che voglia ritagliarsi una posizione di nazione militarmente, oltre che economicamente, forte all’interno dell’Unione europea. Gli Stati Uniti in questo caso sono molto più prudenti perché la situazione è complessa. Tra i rivoltosi ci sono anche i jihadisti (non al Qaeda, che non esiste), che hanno in testa la guerra totale al mondo occidentale».

Negli ultimi tempi si era creato uno spazio di potenza regionale anche la Turchia di Erdogan. Le rivolte dei giorni scorsi hanno indebolito questa leadership?


«Certamente. Ma nei disordini turchi noto però un fatto che non risponde alla domanda ma che mi impressiona».

Ci dica…

«La rivolta turca è cominciata perché il governo voleva mettere un centro commerciale e altre stronzate di questo genere in uno dei pochi punti verdi di Istanbul. La ribellione si è poi trasformata in ribellione politica ma è cominciata così. A Milano, che ha pochi spazi verdi quanto Istanbul, fanno lo stesso da anni e l’unica cosa che riusciamo a fare è un ricorso al Tar, cioè un c…»

Sembra dirlo con rammarico…

«In Italia c’è una totale mancanza di vitalità, che altri popoli invece hanno. In Tunisia, in due giorni di ribellione, hanno destituito Ben Ali, che ne combinate meno della nostra classe dirigente. È una questione di vitalità e di vecchiaia. L’età media italiana è di 44 anni, in Tunisia è di 32».

Tornando alla Siria, i media occidentali si è parlato molto di utilizzo di gas e armi chimiche da parte di Assad. È un argomento che ricorda qualcosa…


«Dopo quello che è successo in Iraq, questa storia delle armi chimiche è grottesca. La figuraccia di allora è costata 750mila morti. Un dato frutto di una ricerca di una rivista inglese, che ha calcolato i morti iracheni durante l’epoca Saddam e quelli dall’occupazione americana in poi. Sarebbe bene evitare questo argomento, almeno per pudore.
Gli stessi servizi di intelligence di Usa e Gran Bretagna non hanno alcuna certezza, anche perché le armi chimiche in Siria potrebbero essere usate da Assad come dai ribelli».

Sempre per “merito” degli aiuti stranieri…

«Esatto. E in questo modo salta il principio dell’autodeterminazione dei popoli. In Siria c’è un dittatore, appoggiato da una parte della popolazione, e un’opposizione. Bisognerebbe lasciare che il campo di battaglia dia il suo verdetto. Il più forte vincerà. Invece le altre nazioni si precipitano e non fanno altro che aggravare le cose».

Senza ingerenze internazionali la guerra sarebbe già finita?

«Senza dubbio. Non so con la vittoria di chi, ma sarebbe finita da tempo. Invece si usano le solite argomentazioni umanitarie, l’esportazione della democrazia e altre stronzate del genere e non si fa altro che prolungare il conflitto. L’esempio clamoroso è quello afghano».

Quindi non crede che il conflitto siriano si possa concludere in tempi brevi, in un modo o nell’altro?


«Se Assad riceve le armi dalla Russia e i ribelli dagli europei, il conflitto resta in una situazione di stallo prolungabile all’infinito».

L’Italia, anche in questo caso, sembra contare davvero poco…
«Conta zero e in questo caso non mi dispiace. Non vedo perché dovremmo andare a ficcare il naso in questioni che non ci interessano. Come dicono a Genova: “Ghemu già detu”, abbiamo già dato. Stiamo seguendo gli americani in Afghanistan, in una guerra assurda che stanno perdendo. Li seguiamo nella politica anti-Iran e noi siamo il secondo partner commerciale di Teheran. Avremo anche noi qualche interesse nazionale o lo devono avere solo gli Stati Uniti?»

Buttafuoco vede una destra oltre la ditta Pdl-Lega


Si parla di un nuovo soggetto di destra, ma «se se ne va Berlusconi come lo fanno? Facendo finta di andare dietro alla Chiesa? Già ora a Roma la Chiesa vota per Marino e con cruda lungimiranza bastona il cane che affoga che pure gli fu molto fedele». Pietrangelo Buttafuco, giornalista e scrittore con addosso da tempo l’etichetta di “intellettuale di destra” non vede improvvisi risvegli dal coma in cui è piombata la destra.

 Come è potuto accadere che la destra si vaporizzasse così?

«È finita. È finita non tanto perché sia finito un ciclo, ma perché si sono fatte delle mosse politiche che hanno portato in quella direzione. Ci si è accontentati di quella che Beppe Niccolai definiva “la pesca delle occasioni” e non si è mai lavorato ad una strategia che garantisse una lunga durata in termini culturali e di identità politica. Questo ha avuto come esito la fine di tutto un mondo».

Quali sono state queste occasioni perse?

«La destra è stata bene o male protagonista in 20 anni di stagione berlusconiana in cui poteva intervenire e dare il meglio, mettersi alla prova con la realtà. Non ha saputo reggere il confronto con la realtà, anche in ambiti propriamente di destra come nel rapporto con la magistratura e le forze dell’ordine, o con la stessa organizzazione culturale, basti pensare al ridicolo in cui è piombata la destra confrontandosi con quella macchina culturale che è la Rai. È stata l’incapacità di approfittare degli strumenti per creare qualcosa di solido e soprattutto è venuta meno a quello che doveva essere la ragione sociale di un partito di destra: forgiare una classe dirigente, un’élite. E non l’ha fatto perché “la pesca delle occasioni” è stata limitata alla garanzia di sopravvivenza di un determinato gruppo di persone che con la politica ci campa».

La destra ha anche quasi rinunciato alla possibilità di incidere, scegliendo ruoli di rappresentanza come la presidenza della Camera o ministeri delle politiche giovanili o delle politiche europee, perché?


«Ha preferito ruoli in cui si trova la facilità demagogica, ma non credo sia solo questo. Bisogna dire la verità: la destra è inadeguata nel rapporto con la realtà. Perché anche una storia dei emarginazione lunga quasi mezzo secolo e che ha portato ad una forma di autocompiacimento dell’emarginazione e quindi all’incapacità di saper gestire e manovrare sia le stanze dei bottoni che perfino i libri. Persino la Lega che in questa stagione politica è stata massacrata è riuscita ad avere ottimi sindaci ed amministratori, ha vinto comunque in Lombardia ed ha avuto ottime prove di governo, basti pensare che Maroni è stato tra i più bravi ministri dell’Interno della storia dell’Italia repubblicana. Non penso che da destra ci sia qualcuno che possa vantare di aver lavorato bene quand’ha avuto la possibilità di stare in un ministero o in un cda».

È vero che la destra di An prima e PdL poi ha pensato solo a conservare il consenso, ma forse non quello che ha fatto il Msi coltivando per 50 anni il proprio orticello postfascista?

«No non è così. La storia del Msi è la storia di personalità inserite nel tessuto vivo della società italiana, personalità che avevano un ruolo indipendentemente dall’essere parlamentare, mentre invece dopo è stata una vicenda che ha riguardato solo chi puntava a mantenere il posto da deputato. Il Msi era fatto di personalità di altissimo livello: quando Ernesto de Marzio entrò in clinica per l’ultimo intervento chirurgico aveva fra le dita la Metafisica di Aristotele, mi riesce difficile immaginare un esponente politico in grado di leggere almeno una pagina di quel libro».

Quale dovrebbe essere la parola d’ordine della destra oggi?

«Sovranità. L’Italia affonda la sua storia e le sue radici nei millenni e se non rivendichi una sovranità non hai la possibilità di muoverti nella grande, violenta, terribile e necessaria giostra della realpolitik. Senza identità sarai cancellata come niente».

Ma la destra può rivendicare “sovranità” per l’Italia se non ha la forza di reggersi in piedi da sola?

«Dipende dalla capacità di darsi un gruppo dirigente. Il vero problema è questo: l’élite. Se non si fabbrica un’élite in grado di reggere il destino di un popolo non puoi fare una nazione. E poi bisogna andare incontro alla popolazione attiva, quella che costruisce il futuro, altrimenti non puoi fare niente. Già è stata una scommessa tragica e impegnativa la nostalgia nei confronti di quella che fu l’Italia del Ventennio fra le due guerre, figurarsi quanto può essere politicamente produttiva la nostalgia verso un aborto come il Pdl. Il Pdl non esiste, esiste solo Berlusconi: se togli Berlusocni il Pdl si sgonfia, sparisce, e in questo sparire non ti accorgi neppure che una volta in tutto ciò c’era una destra».

Caro Solinas, i mohicani non sono poi così pochi


Al di là di quel che egli stesso pensa, Stenio Solinas ha molti compagni di solitudine e non solo tra gli scrittori degli anni Trenta. A sentirsi ultimo dei mohicani, per citare il titolo del suo pamphlet in uscita, sono, o siamo, in tanti. Pochi rispetto al resto, tanti rispetto alla nostra solitudine. 

Condividiamo i suoi giudizi e le sue amarezze, la lontananza con disgusto da questo presente, pur salvando ben poco di quel passato che ci vide giovani e che fu scandito in due epoche: l'epoca feroce che s'inaugurò alla fine degli anni Sessanta con il Sessantotto e che durò nel decennio seguente lungo gli anni di piombo, sanguigni e sanguinosi. E l'epoca leggera che cominciò col riflusso alla fine degli anni settanta e durò nel decennio successivo, consacrato agli yuppies e all'edonismo di massa. Poi avvenne da noi la seconda repubblica, quel concentrato di postmodernità, populismo televisivo e dissoluzione dei grandi racconti, in cui prevalse «l'estasi del presente» come la definisce Solinas, di cui fu re o reuccio Silvio Berlusconi. Un'epoca che strizzava l'occhio agli anni Sessanta, versione commedia all'italiana, e ai rampanti anni Ottanta, versione Drive in, Craxi e Reagan, ma si concentrava sul presente e sul privato, e si opponeva al settarismo giacobino o «comunista» della sinistra italiana con un sogno di felicità individuale di massa che poi non si realizzò. Nel triplice approdo la nave di Solinas si chiama generazione.

In queste tre epoche che abbiamo vissuto, da ragazzi, da giovani e da adulti, la destra è andata via via scemando, e forse il verbo scemare spiega meglio di ogni altro la parabola del suo leader. Ma insieme scomparve anche la risposta intellettuale e culturale a quella destra politica, passata dal piccolo nostalgismo impolitico-elettorale, al postfascismo fondato sull'Amnesia Nazionale, e poi dal berlusconismo opportunistico all'antiberlusconismo suicida. Mi riferisco alla Nuova Destra, di cui Solinas fu esponente di primo piano, che si perse nel caleidoscopio degli anni e la sua comunità partorì un arcipelago di solitudini.

Certo, l'epoca vista non solo da destra ma in generale, è segnata dal trionfo della tecnica e dell'economia sulla politica e sulla passione civile. I suoi leader furono legati all'economia: Solinas cita Berlusconi, Prodi e Monti, ma si potrebbero aggiungere anche Ciampi, Dini, Amato, Maccanico e altri.

Il viaggio sentimentale di Solinas tra Leopardi e Longanesi-Flaiano, è un vivace riassunto generale di quel che scriviamo ogni giorno sul Giornale e del disagio che viviamo noi che non fummo e non siamo liberali e moderati. Un disagio che diventa disprezzo rispetto al fallimento e al cinismo delle classi dominanti ma che si fa speculare quando affronta il cinismo volgare del «popolaccio». Solinas nasconde nel disgusto e nella malinconia un'indole romantica. Un romanticismo che non disdegnò di trescare col fascismo proprio perché amore proibito, storia vietata, scelta disperata. Il fascismo rappresentava «il più altrove» possibile nella storia d'Italia, anche se paradossalmente era l'autobiografia degli italiani (ma degli italiani in piedi, eretti o a volte solo in erezione). Proprio perché impossibile, impronunciabile, irrealizzabile e scandaloso, il sogno del fascismo catturò gli spiriti romantici come quello di Stenio. È bello sedersi dalla parte del torto e dei vinti.
Solinas ricorda le vittime neofasciste degli anni di piombo, ma ha l'onestà civile e morale di provare vergogna per alcune brutte storie che segnarono quel mondo, come lo stupro di Franca Rame.

Ha ragione Solinas a notare che il cosiddetto ventennio berlusconiano sia stato piuttosto il ventennio dominato dall'ossessione antiberlusconiana. Onesto è il suo bilancio di Berlusconi e di Grillo, che ne è la prosecuzione e la negazione al contempo con altri mezzi.

Alla fine, forse anche per Solinas, come per Nanni Moretti, si fa struggente il ricordo amaro e dolce dei nostri vent'anni, cantato da Bruno Lauzi in Ritornerai. Di quel cammino resterà un'impronta lieve sui sentieri dell'anima.

(di Marcello Veneziani)

sabato 1 giugno 2013

De Turris: “Sindaco di tutti” pessimo slogan. Alemanno paga la perdita d’identità


Il risultato di questa tornata amministrativa è lampante, nessuna oscurità. Coloro i quali avevano votato per rabbia, disperazione, demoralizzazione, indignazione Cinquestelle, sono in parte tornati ai partiti di riferimento originario dimezzando i voti del Movimento. Constatato  il comportamento, fra il demagogico e il ridicolo, dei ben 160 cittadini deputati e senatori mandati in Parlamento non si sa bene per quale loro merito intrinseco, hanno pensato bene a livello locale di togliere la fiducia sub condicione che avevano loro dato. Sicché gli elettori di centrosinistra sono tornati in buona parte al PD e in  minima parte si sono astenuti; gli elettori di centrodestra e di destra in massima parte hanno continuato ad astenersi e in piccola parte hanno premiato Fratelli d’Italia.

Le spiegazioni non sono altre e su di esse il centrodestra deve interrogarsi, ma non lo farà come non l’ha fatto in passato, e queste sono le conseguenze della sua paura, ignavia e superficialità. Si è mai chiesto, ad esempio, perché si sono perse città come Trieste e Rieti, da sempre propense a destra? No, nessuno ha denunciato scelte e strategie sbagliate. E infatti si continua a sbagliare, e infatti si perderanno Viterbo e Roma.

In quest’ultimo caso tutti se lo aspettavano dato il comportamento del sindaco uscente. Alemanno aveva sollevato moltissime speranze, tanto da superare al ballottaggio Rutelli. Quindi lo avevano votato componenti politiche diverse, ma nel suo mandato è sembrato essere il sindaco delle lobby politiche e religiose di centrosinistra, dimenticando del tutto la componente di centrodestra che era la sua base elettorale naturale e che finalmente poteva vedere un suo rappresentante al vertice della capitale d’Italia, un fatto mai avvenuto prima. Le sue scelte stanno invece a dimostralo tanto da essere stato soprannominato Veltromanno: nessuna differenza nella gestione della città rispetto a quella delle giunte di centrosinistra guidate dao Veltroni e Rutelli. Forse peggio, e certo non ci si può nascondere dietro l’usbergo del calo della criminalità. Non si vive solo di Legge & Ordine, ma anche di altro. Dopo la cacciata di Umberto Croppi dall’assessorato alla Cultura è subentrato un certo Gasperini, un ex dc mi pare, che ha brillato per la sua assenza. Anche altri centri di potere culturale sono stati del tutto inesistenti: iniziative zero, riequilibrio dei punti di vista zero, possibilità di parlare di una cultura diversa zero, promozione di idee alternative zero.

La gestione del sindaco di centrodestra Alemanno e dei suoi assessori e funzionari durata cinque anni, sarà come mai esistita, non ha inciso sulla realtà, non lascia nulla dietro di sé (a parte alcune poltrone occupate), una parentesi di vuoto. Per non parlare delle promesse e degli annunci non mantenuti, cambiati dalla sera alla mattina, tanto da far nascere anche il soprannome di Retromanno. Mi si dica il motivo per cui qualcuno di destra avrebbe dovuto votarlo. La mozione degli affetti non funziona più. Il rischio di avere un antipatico demagogo come Marino in Campidoglio, alla guida di una giunta presumibilmente litigiosa, si corre.

La delusione crescente, come è stata man mano segnalata ogni volta nel corso di cinque anni, ha avuto la meglio tra gli elettori moderati e di destra, che non hanno certo votato a sinistra o cinquestelle, ma hanno preferito restare a casa.

Le scusanti di Alemanno, lette sui giornali, appaiono ben ridicole e un politico di lungo corso come lui se le poteva risparmiare per non cadere nell’abisso del ridicolo. Secondo l’ancora per poco sindaco (a meno di un miracolo politico) il derby Roma-Lazio avrebbe addirittura “traumatizzato” la città! Ma siano seri… Se ne inventi una migliore. Una astensione record del 20 per cento in meno non si spiega con questi pseudo analisi sociologiche. Un po’ come Grillo che, non sapendo più come giustificarsi, dà la colpa del suo dimezzamento agli “italiani” che non lo hanno capito.. Forse il “trauma” degli elettori è stato causato invece dal bilancio che hanno effettuato dei su cinque anni di Alermanno al Campidoglio,dopo avergli consegnato tante speranze di cambiamento. Una occasione perduta e ahimè irripetibile..

Quindi, ci si metta l’animo in pace: l’ambiguità, la perdita di identità, le promesse mancate, il rinnegamento del passato anche in modo brutale, il cercare di barcamenarsi quotidiano, la politica degli annunci, la smentita di ogni promessa passata: tutto ciò non paga. La scusa del “sindaco di tutti” non giustifica nulla, perché a Roma è apparso evidente che Alemanno dopo l’elezione del 2008 si è dimostrato sindaco di tutti eccetto che degli elettori di centrodestra che lo hanno votato (a parte qualche fortunato…). L’illusione di poter far conoscere alla capitale, governata da sempre da democristiani e comunisti, un’aria nuova, una cultura diversa, un atteggiamento morale che tagliasse col passato é miseramente svanita di fronte alla paura di essere definito “fascista”, agli scandali e all’immobilismo. Nessun riequilibrio, nessuna nuova possibilità, nessuna messa in circolo di energie e idee controcorrente. Insomma, solo un poltronificio. Insomma: Veltromanno.

A ogni sconfitta elettorale nessuno ammette le proprie colpe, nessuno fa tesoro della lezione. Si naviga a vista, non si elabora non dico una strategia a lunga scadenza ma nemmeno una tattica a breve. Giustamente allora è bene auspicare che una certa classe dirigente se ne vada a casa. Purtroppo alle sue spalle lascia il vuoto assoluto, avendo eliminato nel corso degli anni tutti coloro di cui avevano paura perché pensavano potessero far ombra. Non esiste nemmeno una generazione di ricambio: nell’arco di quattro lustri hanno azzerato la politica giovanile: quelli che avevano 20 anni nel 1993 sono diventati dei quarantenni uguali nel peggio alla famosa Casta che tanto disprezzavano, e quelli nati nel 1993 sono in genere totalmente impreparati e incolti. Se la Destra è sconfitta, anzi morta, è colpa solo della Destra e di coloro i quali l’hanno guidata sino ad oggi.

(di Gianfranco de Turris - fonte: www.barbadillo.it)

Trent’anni fa l’ultimo numero de “La Voce della Fogna”, la rivista che insegnò alla destra a ridere di se stessa



Nella primavera del 1983, trent’anni fa, finiva una delle esperienze editoriali più interessanti germinate dal mondo della destra italiana. Stiamo parlando del “giornale differente” La Voce della Fogna, ideato dal politologo fiorentino Marco Tarchi (allora poco più che ventenne dirigente giovanile del Msi) e “stimolato” dalla Nouvelle Droite francese, presente sulla nuova rivista nata nel 1974 tramite Jack Marchal, autore di un’apposita rubrica sul rock ma ancor di più delle strisce che resero popolare (a destra e non solo) il “topo” portavoce della testata. Ovviamente a tre decenni di distanza da quell’esperienza il gioco rievocativo può far indulgere a celebrazioni esagerate: certo La Voce della Fogna non cambiò il costume dei giovani italiani ma influì, e profondamente, sugli atteggiamenti del mondo giovanile della destra.

Innanzitutto, come ha sottolineato Marco De Troia nella sua storia del Fronte della Gioventù (Settimo Sigillo, 2001) quell’iniziativa editoriale cambiò il modo di intendere il giornale politico, virando dai contenuti nostalgici e rievocativi verso quelli più in sintonia con i gusti dei ventenni dell’epoca. Un giornale che non voleva innalzare muri di separazione tra buoni e cattivi ma lanciare un ponte verso il dialogo. Nel primo editoriale della rivista (“Oggi le catacombe si chiamano fogne”) Marco Tarchi scriveva così: “Perché le fogne?! Tutto fuori puzza! Orrendo è il fetore dei mezzi di disinformazione, che presto scopriranno un grave attentato fascista anche negli asili… Se la superficie puzza, il profumo si è rifugiato nelle fogne, svuotatesi ormai di tutta la melma salita verso il potere. È un profumo raro, leggero, che pochi riescono a sentire. Ma esiste… La voce, dalle fogne, dove era stata ricacciata, sale. E cresce…”.

Una voce destinate a lasciare traccia: da allora non vi è storia della destra che non menzioni quel giornale irriverente e che non ne faccia un bilancio storico, disegnando i confini di un’eredità innegabile nei decenni successivi. Secondo Luciano Lanna e Filippo Rossi, autori di Fascisti immaginari, il merito della testata fu di avere compreso, prima di altri, che il neofascismo era morto. Ma il topo che campeggiava sulle famose copertine de La Voce della Fogna è rimasto vivo e vegeto, un’icona della capacità reattiva di un ambiente che anziché piangersi addosso provava a spiazzare gli avversari. E ancora oggi, trent’anni dopo, diventa copertina di un romanzo, Fascistelli, scritto da un giovane regista e autore teatrale, Stefano Angelucci Marino, a dimostrazione della sua vitalità simbolica.

Mario Bozzi Sentieri, che ha pazientemente compilato una storia delle riviste di destra (Dal neofascismo alla nuova destra - le riviste 1944-1994, ediz. Pagine) concorda sul fatto che La Voce della Fogna costituì “un momento di rottura epocale in termini di linguaggio e di contenuti”.  Per la prima volta – continua – “si sono affrontati i temi tipici delle tendenze giovanili dell’epoca, ci siamo innamorati della biopolitica , eravamo affascinati dalla metapolitica, la prima fase de La Voce della Fogna è stata questo. Poi c’è stato un discorso di ridefinizione ideologica di tutto un mondo per superare  vecchi schematismi culturali e per andare al di là della destra e della sinistra”. La Voce della Fogna era, però, anche un giornale politico, “di completa rottura rispetto a un certo neofascismo folkloristico”. Un “azzardo” che costò a Marco Tarchi l’espulsione dopo la pubblicazione sul numero 25 della rivista (autunno 1980) di un falso resoconto del congresso missino (l’articolo fu attribuito a Tarchi ma in realtà era stato scritto da Stenio Solinas). “A rileggerla oggi – commenta Bozzi Sentieri – quella satira sembra all’acqua di rose, una cosa molto blanda rispetto ai veleni che sono stati sparsi dopo. Ma è chiaro che era solo un pretesto per liberarsi di un intellettuale scomodo come Tarchi”. E comincia così la terza fase della rivista, che diviene strumento di diffusione delle idee della Nuova Destra. Un compito che appunto nel 1983 passa a testate più approfondite e “serie” come Diorama e Trasgressioni.

Lo stesso Marco Tarchi, scrivendo di quell’esperienza, così ne traduce il senso: “Si constatava una realtà: la rude emarginazione quotidiana. Ma dall’underground delle catacombe qualcosa può nascere. Una neolingua da inventare, che prendesse le distanze dal destrese sezionale senza ricalcare i fonemi dell’avversario, tre pagine di fumetti, la voglia di far vedere che anche in materia di cinema, di musica rock , di costume, il diritto di esprimerci non poteva esserci negato. Incomprensioni, ostracismi, curiosità. E la sorpresa di aver sfondato, coagulando quel che fra le righe di tanti giornaletti ciclostilati era qua e là comparso, riprendendo il gusto di sghignazzarsi addosso, di scollarci di dosso il tetrume delle occasioni ufficiali” (Marco Tarchi, La rivoluzione impossibile, Vallecchi). Un tentativo fecondo che sicuramente venne imitato dal Fronte della gioventù per tutto il decennio degli anni Ottanta. Poi, è stata bagarre sia sulle eredità da conservare sia sui contenuti da ostentare sia sul linguaggio da utilizzare. Ma un elemento, a trent’anni di distanza, appare in modo innegabile: La Voce della Fogna fu il tentativo riuscito di un mondo ghettizzato di guardare “fuori” di passare dalle negazioni “assolute” alle affermazioni “condivise”. Oggi il mondo giovanile della destra appare soverchiato da un eccesso di ossessione identitaria ed è tentato, semmai, dal fare il percorso contrario. Ma questa è tutta un’altra storia, e tutta ancora da scrivere.

(di Annalisa Terranova - fonte: www.secoloditalia.it)

martedì 28 maggio 2013

La denuncia di Ida Magli: “I governanti ci vogliono uccidere”



Minimalista, depressa, costantemente sull’orlo del baratro. E’ questa l’Italia che vuole l’Europa? O è la conseguenza di errori politici? Ne discutiamo con Ida Magli, antropologa e saggista italiana. Nel suo lavoro ha applicato il metodo antropologico alla cultura occidentale, pubblicando i risultati delle ricerche in numerosi saggi dedicati al cristianesimo, alla condizione delle donne, agli strumenti della comunicazione di massa. Ida Magli, nel 1997, con il suo saggio “Contro l’Europa”, ha previsto ciò che oggi sta accadendo in Europa, in Italia.

Dal 1997 lei afferma che l’Europa, questa Europa, è dannosa per l’Italia. Come spiega l’europeismo italiano a tutti i costi?

“Sono i governanti, i politici, i sindacalisti, più qualcuno dei grandi industriali per ovvi motivi di allargamento del mercato, ad aver imposto l’europeismo italiano a tutti i costi. Lei fa bene a sottolineare che è ‘italiano’: in tutti gli altri paesi, sebbene i governanti spingano verso l’unificazione europea, non c’è l’assolutezza che c’è in Italia, naturalmente anche a causa dell’obbedienza dei mezzi d’informazione nel tenere il più possibile all’oscuro i cittadini sugli scopi dell’Europa e sui suoi aspetti negativi, un’obbedienza quasi incredibile. Faccio un solo esempio: tanto Mario Monti quanto Emma Bonino sono stati compartecipi del più grosso scandalo avvenuto in seno al governo europeo (La Commissione Santer: Commissione Europea in carica dal 1995 al 1999, quando è stata costretta alle dimissioni perché travolta da uno scandalo di corruzione – ndr) e costretti alle dimissioni con due anni di anticipo dalla scadenza del mandato per motivazioni ignobili quali nepotismo, contratti illeciti, enorme buco di bilancio, come recitala Gazzetta ufficiale dell’UE. Ma nessun giornalista lo dice mai e nessuno l’ha mai sottolineato, neanche quando Mario Monti è stato capo del governo e oggi in cui Emma Bonino è ministro degli esteri nel governo Letta.”

Quali sono gli interessi in gioco?

“I motivi di esclusivo interesse per i governanti sono molti, ma mi fermo a illustrarne soltanto due. Il primo è di carattere politico: distruggere gli Stati nazionali e per mezzo dell’unificazione europea, distruggere i popoli d’Europa, ossia i ‘bianchi’, facilitando l’invasione degli africani e dei musulmani per giungere a un governo ‘americano mondiale’. Naturalmente per la grande maggioranza degli italiani, quella comunista, l’universalizzazione era già presente negli ideali marxisti ed è persistita, malgrado le traversie della storia, fino ad oggi in cui vede finalmente realizzati i propri scopi nel governo Letta. Si spiega soltanto così la lentezza e la tortuosità che sono state necessarie per giungere al governo Letta: era indispensabile creare le condizioni che giustificassero il vero governo ‘europeo’, abilitato a distruggere l’Italia consegnandola all’Europa. Il secondo motivo è esclusivamente d’interesse personale: si sono costruiti, spremendo e schiacciando il corpo dei sudditi, un grande ‘Impero’ finto, di carta, che non conta nulla e non deve contare nulla in base ai motivi che ho già esposto, ma che per i politici dei singoli Stati è ricchissimo. Ricchissimo di onori, di benemerenze, di poltrone, di soldi. Governare oltre cinquecento milioni di persone, con tanto di ambasciate aperte in tutte le parti del mondo, fa perdere la testa a questi politici che vengono dal nulla e che non sono nulla e che, quando manca una poltrona in patria, la trovano in Europa per se stessi, parenti, amici, amanti, con un giro immenso di possibilità e libero da ogni controllo. Non c’è praticamente nessuno dei politici oggi sulla scena che non sia stato parlamentare europeo: Napolitano, Bonino, Monti, Prodi, Letta, Rodotà, Bersani, Cofferati e tanti altri ancora, con un ricchissimo stipendio e benefici neppure immaginabili  per i comuni lavoratori. Essere parlamentare europeo significa anche impiegare il poco tempo passato a Bruxelles a tessere i legami e scambiare i favori utili per la futura carriera in patria, godendo anche alla fine di questi ben cinque anni di dura fatica, di una cosa strabiliante: la pensione per tutta la vita”.

In un suo recente intervento ha affermato che non c’è nessuna luce al termine del tunnel della crisi. Il tunnel è dunque la realtà alla quale dobbiamo abituarci?
“Sì, il tunnel è la realtà. Non dobbiamo abituarci, però, anzi: dobbiamo guardarla in faccia come realtà. Niente di ciò che dicono i politici prospettando un futuro miglioramento nel campo economico è vero e realizzabile, perché non possiamo fabbricare la moneta, come fa ogni Stato sovrano (Come fanno in questi giorni il Giappone e l’America per esempio – ndr). Una moneta uguale fra paesi diversi è una tale aberrazione che non è possibile credere a un errore compiuto dai tanti esperti banchieri ed economisti che l’hanno creato, fra i nostri Ciampi e Prodi. E’ stato fatto volutamente per giungere a una distruzione”.

Per distruggere cosa?

“L’introduzione dell’euro ha sferrato il colpo di grazia all’economia degli Stati. Se viceversa si fosse trattato davvero di un errore, allora perché, invece di metterli alla gogna, continuiamo a farci governare da quegli stessi banchieri ed economisti che non sopportano la minima critica all’euro? Dunque la situazione economica continuerà ad essere gravissima e il solerte Distruttore si prepara a consegnarci all’Europa sostenendo che mai e poi mai potremo mancare agli impegni presi e che per far funzionare l’euro bisogna unificarsi sempre di più. Questa è la meta cui si vuole giungere. Visto che la moneta unica non funziona, perché sono diverse le produzioni dei singoli Stati, cambieranno forse queste produzioni unificando le banche e le strutture economiche? Bisogna farsi prendere per imbecilli non reagendo a simili affermazioni. L’unica possibilità che abbiamo per salvarci è che sorga qualcuno in grado di organizzare una forza contraria. Io non lo vedo, ma lo spero. Lo spero perché l’importante è aver capito, sapere quale sia la verità, guardare in faccia il nostro nemico sapendo che è ‘il nemico’.”

In Italia, come in altri paesi colpiti da questo nuovo assetto di mercato che tanti chiamano crisi economica, spesso il suicidio è visto come una soluzione. Come si spiega antropologicamente che è meglio morire invece di ribellarsi?

“La spiegazione si trova in quello che ho detto: i governanti ci vogliono uccidere, lavorano esclusivamente a questo scopo, obbligandoci a fornire loro le armi per eliminarci il più in fretta possibile. Questo è il ‘modello culturale’ in cui viviamo. In base alla corrispondenza e l’interazione fra modello culturale e personalità individuale, chi più chi meno, tutti gli italiani percepiscono il messaggio di condanna a morte che i governanti hanno stabilito per noi in ogni decisione che prendono, in ogni discorso che fanno, in ogni persona che scelgono, in ognuno dei decreti, delle leggi che emanano e delle tasse che impongono. E tuttavia non se ne può parlare: la condanna a morte è chiara ma implicita, sottintesa, segreta, nascosta perché ovviamente l’assassinio individuale così come il genocidio di un popolo, è un delitto e non si può accusarne il governo, il parlamento, i partiti: nessuno. E’ questo il motivo per il quale ci si uccide: l’impossibilità a parlarne, a dirlo chiaramente perfino a se stessi, a fare qualsiasi cosa per evitarlo e ad accusare il proprio ‘padre’. Neanche Shakespeare sarebbe stato in grado di descrivere la tragedia che stiamo vivendo, per la quale stiamo morendo. Qualcuno riesce forse a rendersi conto di che cosa significhi eliminare volontariamente i ‘bianchi’, la civiltà europea, invece che tentare di allontanare il più possibile questa fine, di imprimere nella storia lo sforzo per la salvezza? Qualcuno riesce a concepire un delitto più nefando di questo: che si siano assunti il compito di agevolare  questa morte soprattutto gli italiani, i governanti italiani, quando viceversa avrebbero dovuto essere loro a impedirlo, a voler conservare il più possibile l’immensa Bellezza che gli italiani hanno donato al mondo?